martedì 28 agosto 2012

Hic et nunc.

C'era una brezza fresca a entrare dalle finestre spalancate, quelle tende candide a svolazzare, gonfie come vele d'una barca e poi un'estate ormai giunta alla sua fine.
Mani ossute indaffarate tra tessuti, sguardi assenti, lontani da quella stanza, lontani da quel posto in cui viveva.
La mente altrove e il cuore lontano. Sentiva crescere incertezze, insicurezze.
Frasi a rimbombare nella mente come battute inghiottite a memoria per la scena d'un film.
Un aspettarla.
Un grazie.
Un esser sempre stato li che diventava più concreto, più tangibile, più sicuro e forte di giorno in giorno.
Un grazie per tutto quel tempo fatto di no.
Uno schernirsi imbarazzato e un sorriso sempre vivo.
Una domanda incerta, una richiesta assurda, pretendeva un perché, un perché che sapeva non esistere così come quei perché che sono impossibili da dare, quei perché inesistenti semplicemente per il fatto che non esiste nessuna spiegazione, nessun motivo, un perché che è così punto e basta semplicemente trasudante di speranze ed emozioni.
Risposte da far accelerare il battito e da far sudare le mani, di quelle risposte da abbassare la testa e da sorrisi storti, da sguardi imbarazzati e brividi a fior di pelle.
Rifletterci un po' su, sentire il magone in gola, ripensare a vecchi momenti, identici a quelli ma al contempo differenti. 
Visi a ricomparire nella mente ed altri li presenti e ben sicuri. 
Occhi neri fissi addosso, capelli scompigliati, labbra ovunque e mani ferme, così, ancora così: testa chiusa e cuore aperto.
Ennesimo brivido di vita.
Infinito sentimento.

mercoledì 25 luglio 2012

(Sarebbero state possibili....) Stelle cadenti.

"Rob stava lì, nella sua officina, le mani sporche di grasso così come la sua tuta.
La tv era accesa, nonostante l'orario lui era chiuso li dentro, col carrello sotto una macchia a controllare quel motore di una vecchia golf ormai troppo stanco per reggere i ritmi del suo proprietario.
La telecronaca di una partita della nazionale riempiva l'aria afosa di quell'estate. 
Rob se la ricordava bene quella sera, ricordava ancora adesso i brividi sulla sua pelle abbronzata per natura e la sua peluria sull'attenti dinnanzi a quell'emozione che credeva di aver dimenticato.
<<Materazzi crossa, passa a Del Piero eeee....maledizione! Grande occasione sprecata per i nostri azzurri!>>
La mente a quel mondiale del 94, quell'occasione sprecata, quel goal rubato, quel calcio di rigore fallito, quella traversa tanto temuta.
Ricordava ogni singolo secondo di quei 90 minuti di quella partita Italia-Brasile...quel 3-2.
Ricordava le lacrime sui suoi occhi, ricordava i compagni, la delusione negli occhi dei tifosi presenti nello stadio; sentiva addosso la pesantezza della sconfitta, causata per mano sua, designatrice della fine d'un sogno.
E in quel momento i suoi pensieri volarono ai suoi ex amici e compagni di squadra ora grandi allenatori e businessman del calcio.
Lui se li ricordava i suoi sogni di ragazzo. Ma dopo quel mondiale nulla era stato più lo stesso. 
Tornato in Hotel, tutto lo staff continuava a ripetere che erano una squadra, rappresentanze di una nazione, che non era stato lui a farlo perdere bensì era stata la squadra a non aver avuto abbastanza forza per vincere quelle belve brasiliane dai piedi leggeri e il cuore infuocato.
Ma una volta nella sua stanza, lo specchio fu testimone del suo giuramento: all'età di 37 anni era giunta l'ora di abbandonare quel sogno, di abbandonare la sua carriera da calciatore, la sua ascesa alla ricchezza e al successo nel mondo delle eccellenze sportive. 
Strinse tra le mani quella figurina panini che lo ritraeva sorridente e fiero dei sacrifici compiuti per arrivare fino a quel traguardo. Ma ora tutto doveva avere una fine.
Sarebbe tornato al suo paese, si sarebbe dedicato alla sua famiglia e sarebbe tornato all'anonimato, sarebbe tornato ad essere per i suoi figli quello che tutti i padri sono: un eroe della quotidianità, di quelli con le mani sporche e con le bollette da pagare a fine mese.
E quello era diventato Rob e mai, nemmeno per un secondo aveva rimpianto quella scelta, nonostante tutti, dai più grandi giornalisti al giornalaio della piazza principale, continuassero a sostenere e a commiserarlo per la terribile disgrazia che lo aveva escluso da quel mondo dorato per un errore all'ultimo minuto del mondiale."

lunedì 16 luglio 2012

Coltivare: i sogni e le passioni.

La casa stava arroccata su una collina piena di piccoli arbusti di un verde intensissimo.
Aveva un tetto piatto e all'interno tutti i mobili erano in legno di ciliegio e ognuno aveva su di se un centrino. Quel pomeriggio però la casa era vuota, regnava i silenzio mentre i raggi delle sei di pomeriggio di una torrida estate filtravano tra i buchi delle tende finemente ricamati da mani esperte.
Sul retro però la porta era socchiusa e una donna, paffuta e vestita di rosso portava sulla mano sinistra un tubo di plastica dura totalmente nero.
L'acqua fuoriusciva da esso e quasi con rabbia si schiantava sulla terra, inumidendola, inscurendola, facendo esplodere nell'aria ogni odore in essa contenuto. L'acqua sgorgava irrigidendo i gambi e ravvivando le foglie.
Goccioline, fini come rugiada scivolavano su una buccia violacea, rimanevano incastonate tra le invisibili spinuzze di una superficie bianco verdastra, ingiallivano le creste di quelle enormi carrozze, arrossavano i timidi globi fino a poco tempo prima verdi d'invidia come le foglie di ghirigori poste al loro fianco.
La natura fioriva e lei la osservava, fiera, soddisfatta.
Un sogno insolito forse, ma la sua casa appena fuori dalle porte di Roma, immersa nel suo giardino, nel suo orticello, nei suoi fiori, la facevano felice e le davano la tranquillità necessaria nei pomeriggi di preparazione al ricevimento dei suoi 7 figli e dei suoi innumerevoli dolci nipotini.

giovedì 5 luglio 2012

Quando un cuore senza un pezzo...

"Era li, tutto il giorno a fissare il voto perché il silenzio la assordava. Tentava di ignorarlo quel ronzio ma era più forte di lei.
All'inizio voleva riempirlo quel vuoto, ci lottava contro, tentava di sovrastarlo fino al giorno in cui le diedero il colpo di grazia.
Il suo corpo era diventato ignaro trofeo d'un uomo che dichiarava apertamente di voler giocare, di non curasi di niente e nessuno.
Lei glielo donava ma ogni volta che lui iniziava a sfiorarla il suo corpo era come se mettesse il pilota automatico. Talvolta lo dimenticava e a quella passione che ancora la teneva legata lui si lasciava andare. Rideva e le sue mani volavano ovunque, in ogni antro di quel corpo che conosceva bene come se stessa.
Ma appena la carne si consumava, non c'era nessuno sguardo ad aspettarla, nessuno sguardo ad amarla, solo la stanchezza e la voglia di dormire. E lei stava li, immobile, aspettando che Morfeo arrivasse sul corpo steso al suo fianco e così, non appena quelle palpebre si chiudevano, la sua anima iniziava a leccarsi le ferite, ennesime, plurime.
Ormai ne era certa, anche quello era una sorta di autolesionismo della quale però nessuno si rendeva conto. Un autolesionismo che non lasciava segni tangibili, ne cicatrici esposte all'aria, un autolesionismo che però lentamente la corrodeva da dentro e alla quale non riusciva a porre fine.
L'unico segno di autodifesa che le era rimasto era la chiusura. Del suo cuore, della sua anima, della sua mente. Tutto questo ormai lo teneva solo per sei e le PAROLE erano ancora una volta le uniche a correrle in soccorso."

mercoledì 27 giugno 2012

La vendetta

Trrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr...

Era come un'interferenza, un ronzio continuo nella mente, stava lì con insistenza, non sembrava intenzionato a cessare. Forse il colpo preso mentre lavavo i vestri: no, lo spigolo mi aveva 
sfiorato appena la nuca.
Sperai che la dottoressa facesse in fretta, sentivo nella testa come uno sciame d'api.
Con una smorfia di dolore guardai le mie mani, stavo invecchiando, anche il rilassante ticchettio dell'orologio sembrò evidenziare le rughe delle mie mani, e intanto mi chiesi se, a soli 52 anni, fosse normale avere già le mani così rugose.
Claudio andava su e giù per la stanza, lo vidi rigirarsi la fede nell'anulare. Cattivo segno, forse il mio grido lo aveva terrorizzato. Si, doveva essere così, glielo lessi negli occhi acquosi che scrutavano minuziosamente il pavimento lucido della sala d'attesa.
Qua e là notai delle macchie verdastre <<Chissà, sarà caduto dell'antibiotico. Alquanto antigenico per essere la sala d'aspetto di una guardia medica>> pensai.
Ma non ebbi né la voglia né la forza per discutere, sentivo la testa pesante, come se stesse per scoppiare.
Fuori intravidi la divisa della guardia giurata mentre fumava un sigaro, non lo vidi per un po' e dopo un tempo che non riuscii a definire tornò dentro. Fece scorrere la porta a cellula automatica portando con se l'aria gelida tipica di una notte invernale inscurita dalla tremenda tempesta che si era impadronita del paese dal pomeriggio; uno dei peggiori temporali di tutto Dicembre.
Lampi, tuoni, un buio penetrante da far paura anche all'imponente guardia giurata che mi sorrise affabilmente: un bel sorriso, denti bianchi, tutti perfettamente allineati, capelli corti e fisico scultoreo che mi diede sicurezza.
<<Bene – pensai – così in caso di emergenza i pazienti e la dottoressa saranno al sicuro, ma cosa potrà mai succedere in un paesino come questo? Certe cose accadono solo nei film!>>.
Intanto Claudio si sedette accanto a me e, con aria fin troppo sveglia per essere le tre di notte, mi fece che dall'ambulatorio la dottoressa sembrava si fosse liberata.
Ecco dopo appena un minuto, la porta si spalancò, io e Claudio ci alzammo ma la dottoressa ci fece segno di pazientare ancora qualche minuto; in quel preciso istante un lampo illuminò le tre piccole stanzette dal quale era composta a guardia medica e solo qualche secondo dopo un boato assordante ci fece piombare nell'oscurità.
Istintivamente mi aggrappai al braccio, ancora muscoloso nonostante i suoi 56 anni, di Claudio. Non avevo paura del buio, ma l'improvvisa mancanza di luce sommata al penetrante ronzio mi disorientarono.
Dall'ambulatorio sentimmo un gridolino della dottoressa e, subito dopo, il cigolio della porta socchiusa che si spalancava.
Un'infantile voce melodiosa sussurrò:
<<Roberto?>> la guardia giurata fece un grugnito infastidito per tutta risposta, la dottoressa continuo:
<<Andresti a controllare se è il salvavita che è saltato?>>.
<<Non credo – rispose Claudio – ci dev'essere un black-out in tutto il paese, anche i lampioni e le luci del parcheggio sono saltate>>;
seguì un rumore di passi e appena dopo prese vita un ronzio simile a quello che rimbombava nella mia testa e all'istante si accesero le luci bianco bluastre dei neon posti all'ingresso e sopra la porta dell'ampio ambulatorio.
Ci guardammo tutti, quasi freneticamente. Claudio infastidito, la dottoressa impaurita, la guardia giurata impassibile con quel mezzo sorriso ancora stampato sul viso e io....io non lo so, più passava il tempo più il dolore aumentava e la mia mente era come annebbiata.
La dottoressa mi fissò e quasi leggendo nei miei occhi il dolore lancinante che provavo mi disse di entrare nell'ambulatorio.
Attraversai la sala d'aspetto e, mi sembrò di dover sostenere una prova d'agilità: tentavo di scansare le enormi macchie d'antibiotico divenute fosforescenti.
Boooooooooooooooooom!!
Un vibrante boato fece volgere i nostri sguardi verso la vetrata. Scorsi un uomo dalla pelle albina, indossava uno scuro mantello lungo sino ai piedi. Gesticolava freneticamente, muovendo le labbra senza emettere alcun suono.
Con il volto terrorizzato batteva i sudici pugni contro la vetrata.
Rivolsi il mio sguardo prima a Claudio, poi alla guardia giurata, ma entrambi avevano il loro fisso sull'uomo dall'aria sinistra.
Improvvisamente sentii la mia testa come immergersi in una bolla d'aria bollente e sentii il mio corpo scivolare pesantemente sul gelido pavimento.
Quando mi risvegliai mi ritrovai distesa su un divano, in una stanza che supposi fosse l'ambulatorio.
Ero sola. La porta socchiusa attutiva la voce che proveniva dall'altra stanza.
Mi avvicinai, senza far rumore, alo spiraglio. Da li potevo intravedere la guardia giurata e un altro uomo, chiaramente riconoscibile grazie al mantello che notai essere ampiamente impregnato di antibiotico fosforescente sui lembi che strisciavano sul pavimento.
L'uomo farfugliava silenziose parole straniere. Solo dopo un po' capii che era danese.
<<Che fortuna!>> pensai. Sapevo parlare il danese.
La guardia si alzò e disse:
<<Giulia puoi venire un attimo?Ti devo parlare in privato>>.
Li vidi venire verso me. Come una bimba timorosa d'esser scoperta mentre spia mi precipitai sul divano e feci finta di non essermi ancora ripresa.
I due entrarono e si chiusero la porta alle spalle.
<<Che c'è?>> esclamò la dottoressa preoccupata.
<<Quell'uomo è pericoloso! Devi restare qui. Io e Claudio lo calmeremo poi chiameremo la polizia>>.
<<Come fai a...>> non riuscì a finire la frase perché lui la baciò. Lei sospirò e poi sussurrò:
<<Fai attenzione>>
<<Tranquilla – rispose lui – ho la mia pistola in caso di emergenza>> ma quando tastò sul fianco, la custodia era vuota.
<<Maledizione! Ho lasciato la pistola nella guardiola!>> e uscì sbattendo la porta alle sue spalle.
Notai che aveva un tono di voce particolare, come se stesse fingendo. E quel bacio, quel tono premuroso, contrastavano col grugnito con cui aveva risposto prima alla dottoressa.
Dopo questi pensieri decisi di alzarmi fingendo di essermi appena ripresa.
La dottoressa era seduta dietro la sua scrivania e quando mi vide riprendere i sensi mi chiese a mio parere inutilmente:
<<Signora, è lei che dovevo visitare da prima?>>.
Risposi di si flebilmente recitando perfettamente la parte di una che si è appena ripresa da uno svenimento.
Mi fece accomodare sul lettino e dopo avermi accuratamente visitata si avvicinò alla scrivania e prese un blocchetto per le ricette. Fece appena in tempo a sedersi che udimmo uno sparo.
Il mio sguardo e quello della dottoressa si incrociarono per una frazione di secondo. Subito balzai giù dal lettino e la dottoressa mi seguì con aria ansiosa.
Aprii la porta e sotto il neon vidi Claudio disteso a terra in una pozza rossa.
Il maglione bianco evidenziava il sangue, che mischiandosi con le macchie d'antibiotico rendeva spettrale il lucido pavimento su cui si rifletteva la sua sagoma inerme.
Aveva ancora gli occhi aperti. Bianchi; l'occhio si era capovolto nascondendo l'iride. Un'espressione di terrore attraversava il suo volto illuminato a intervalli più o meno regolari dai lampi che penetravano dalla finestra appena sopra il suo corpo.
Non ebbi neppure la forza di gridare.
Mi avvicinai al cadavere senza neppure domandarmi chi fosse l'omicida.
Mi chinai e gli chiusi le palpebre.
Una goccia cadde sul suo volto inumidendo quella guancia ormai inerte per l'eternità.
Chinandomi le mie la mie labbra sfiorarono le sue, labbra consapevoli che quello sarebbe stato il nostro ultimo bacio, il nostro ultimo momento di serenità prima che la mia furia si scatenasse contro l'assassino.
Mi alzai. Le mani impregnate dal liquido viscoso che circondava mio marito.
Mi voltai.
Avvolto da un silenzio agghiacciante contemplai la guardia e lo straniero.
Fissai poi l'inconsapevole complice del delitto. L'arma.
La vidi silente su una panca, posta esattamente al centro tra gli unici possibili colpevoli, vicino a Claudio.
Li scrutai attentamente tentando di scorgere nei loro sguardi un senso di soddisfazione o un'ombra di follia.
<<Chi. Ha. Ucciso. Mio. Marito?>> sibilai scandendo bene ogni parola.
<<Io? Ho proprio detto prima a Giulia di temere lo straniero! Vede...io e Claudio labbia rinchiuso nella guardiola, ma è riuscito ad uscire rompendo il vetro, così, mi ha rubato la pistola e ha ucciso suo marito>>.
Il Danese chiese su cosa discutevamo. Tradussi tutto e lui si difese dicendo:
<<E' vero hanno tentato di chiudermi nella guardiola e ci sono riusciti. Una volta dentro ho guardato attraverso il vetro e ho visto la guardia e suo marito discutere. Quando quest'ultimo ha detto qualcosa a denti stretti la guardia l'ha sparato facendolo cadere a terra proprio dove si trova in questo momento. A quel punto ho rotto il vetro e sono uscito qui fuori>>.
Avevo ascoltato attentamente.
La dottoressa tremava fissandomi con aria perplessa poi esclamò:
<<Mette in dubbio la divisa di Roberto?>>
<<Non mi interessa il ruolo che ricoprono questi uomini! L'unica cosa che voglio è sapere chi ha ucciso mio marito e perché!>>.
Sentii il sangue ribollire nelle vene e immersa nella mia apatia iniziai a ripensare all'assurdità di quella notte.
Furia e smarrimento iniziarono a mescolarsi in me. <<Devi stare calma Rebecca – continuavo a ripetermi – devi tenere la calma o non scoprirai mai chi ha commesso questo efferato gesto>>.
Non mi fidavo della guardia, ma neppure lo straniero con il suo sguardo sinistro mi sembrava totalmente innocente.
Nel silenzio il ticchettio dell'orologio sottolineava che ero li da soli quaranta minuti, ma a me sembrava passata un'eternità. Mi accorsi anche che il ronzio era passato; avevo la mente libera.
Poi come in un libro horror mi venne un'illuminazione.
Rimasi frastornata. Nella mia testa si accumularono una serie di indizi. <<Pff...indizi!>> mi venne quasi da ridere.
Mi accorsi che era come uno di quei giochi della settimana enigmistica. Una serie di puntini si unirono piano piano delineando il profilo del colpevole.
Ero sicura. Sapevo chi aveva ucciso l'uomo che amo. L'unica cosa che mi rimaneva da scoprire era il perché. Non riuscivo nemmeno ad immaginare una possibile motivazione.
Claudio. Mio marito. L'uomo più pacifico che avessi ma conosciuto.
Decisi allora di mettere alle strette il colpevole.
<<Signor Roberto, ha per caso due paia di manette?>>
<<No signora. Solo uno.>>
<<Va bene, allora ci arrangeremo così>>
<<A cosa le servono?>> esclamò la dottoressa sempre più perplessa e spaventata.
<<Vorrei ammanettare la guardia e lo straniero...sa, per ogni evenienza>>.
E intanto traducevo la conversazione in danese.
Lo straniero non oppose alcuna obiezione, la guardia al contrario esclamò con tono indignato:
<<Io sono una guardia giurata! Non ha nessun diritto di ammanettarmi ad un assassino!>>.
Sorrisi soddisfatta. Avevo ottenuto ciò che volevo e così ribattei con un pizzico di malignità:
<<Ha forse qualcosa da nascondere?>>
<<Certo che no!>>
<<E allora che problema c'è? Dimostrerò la sua innocenza>>.
Interdetto acconsentì. Li feci accomodare e, come mossero alcuni passi notai che le mie congetture erano esatte!
Li ammanettai alla panca spostando la pistola con un fazzoletto.
Ero più o meno tranquilla. Nonostante fossi sicura di aver ragione avevo le mani sudate. Non avevo un movente ma avevo le prove.
Iniziai a parlare traducendo pian piano:
<<So che è stato lei – iniziando mentre fissavo un punto tra i due ammanettati – non so per quale motivo l'abbia fatto ma ne ho la certezza>>
<<Come fa a saperlo?>>
<<Ho forse detto che il colpevole è lei? Ho per caso fatto il suo nome signor Roberto?>>; sentivo alle mie spalle il respiro della dottoressa crescere sempre più e poi vidi la guardia mordersi il labbro.
<<Ho ragione dunque!>> esultai. Bisbigliò qualcosa di incomprensibile ma io continuai:
<<Ho sentito il tono premuroso con cui si è comprato la signorina Giulia già visibilmente infatuata di lei! E come mai subito dopo il black-out, qualche minuto prima, le aveva risposto con uno scortese grugnito?>>
<<Ma io...>>
<<Mi lasci finire la prego! La notte è giovane. - Ghignai trionfante – iniziai a non fidarmi di lei per questo. Notai in seguito che conosceva mio marito per nome..”Claudio” - apostrofai – ma lo straniero non ne era a conoscenza, perciò mi è stato subito chiaro che non vi eravate presentati durante il mio svenimento...>>
<<Ma l'uomo è Danese! Lui non capisce! Per questo non lo ha chiamato per nome!>> sbraitò.
<<Come avrà notato conosco bene in danese e so per certo che il nome Claudio è identico sia qui che in Danimarca, perciò...>> lasciai la frase in sospeso godendo appieno dell'irritazione dell'uomo. Poi continuai:
<<Vi ho poi fatto spostare e ho avuto la conferma definitiva della sua colpevolezza. Lo straniero come può notare ha il mantello impregnato di liquido fosforescente e spostandosi lascia una striscia al suo seguito. Quando io e la dottoressa siamo uscite qui nella sala d'attesa, sia lei che lo straniero eravate lontani da mio marito e non c'erano tracce fosforescenti tra voi e il cadavere perciò non sarebbe mai potuto essere il Danese ad ucciderlo>>
<<Maledizione!>> sbraitò ancora Roberto in tono furioso.
Alle mie spalle la dottoressa scoppiò in lacrime e sussultando chiese il perché.
<<Lo conoscevo da un po' d'anni suo marito. Ex finanziere. Lo incontravo spesso prima di essere trasferito per colpa sua in questa maledetta guardia medica in questo insulso paese.
Capitava spesso che la sua squadra e la squadra di cui facevo parte si incontrassero per dei blitz anti-droga.
Quella maledetta sera! Se solo lui e la vostra maledetta auto non fossero passati di li!>>.
Parlava a denti stretti, con un astio che non avevo mai sentito prima in nessuno.
<<Era buio e il giorno prima avevamo ritirato un ingente partita di cocaina...ero uno dei migliori in queste retate. Il mio capo si fidava ciecamente di me, perciò mi diede l'incarico di portare la droga al deposito dove sarebbe stata bruciata.
Ma la sera, tornando a casa un pensiero mi balenò nella mente. Il poker stava devastando la mia vita ma ormai ero dipendente e avevo un disperato bisogno di denaro per pagare tutti i miei debiti.
La mattina seguente da solo trasportavo la partita di droga. Mi fermai in un viottolo e rubai tre panetti dal furgone sostituendoli con del da.
Dopo aver eseguito la consegna tornai a casa, la sera mi infilai la tuta e uscii di casa con la mia volkswagen gialla. “Da troppo nell'occhio” mi ricordo che pensai, ma dovevo sbarazzarmi di quella roba al più presto possibile.
Svoltai sicuro verso il vecchio centro storico ormai malandato e pullulante di spacciatori.
Trovai un uomo calvo con uno strano cilindro in mano, mi fermai e gli chiesi se potevo vendergli la droga. Accettò facilmente...dopo poco notai che un'auto si dirigeva verso di noi. Era una mercedes blu. Con i fari mi accecò e poi sgommò.
Scese un uomo imponente. Era Claudio. Mi colse con le mani nel sacco. Chiamò il mio capo e il resto ve lo lascio immaginare.
Furono i mesi peggiori della mia vita. Mi mandarono in un centro per dipendenti da gioco e dopo avermi disintossicato dal poker mi licenziarono. Anzi, fecero di peggio. Mi mandarono qui, in questo posto dimenticato da Dio! Pieno zeppo di vecchi, dove il tempo non sembra passare mai...>>
<<E' stata una vendetta dunque!>> esclamai sconvolta. Anche solo per un istante avevo sperato fosse stato un raptus di follia. E invece no! L'uomo della mia vita mi era stato portato via da un giovane frustrato.
<<Si e stata una vendetta. Questa sera il destino ha giocato a mio favore. Il temporale, lo straniero, il black-out! Tutto troppo perfetto per non essere sfruttato. Quando siete arrivati l'ho riconosciuto immediatamente, ma lui no...solo dopo aver rinchiuso lo straniero nella guardiola si è accorto della mia identità.
Ho rovinato la vita della persona che amava di più al mondo. Lei cara Rebecca. A lavoro non faceva altro che dire che avrebbe dato la sua vita per lei. Beh, l'ultima cosa che avrebbe voluto sarebbe stata la sua infelicità. E invece eccola qui, triste come non mai. La miglior vendetta che potessi mettere in atto!>>.
Uno sguardo da folle mi fissava dritto negli occhi. Sentii improvvisamente un vuoto dentro e un irrefrenabile desiderio di morire. Fissai la pistola e mi diressi alla panca. La presi in mano e mi vennero in mente Romeo e Giulietta.
Oh qui, io fisserò il mio sempiterno riposo e scoterò da questa carne stanca del mondo il giogo delle avverse stelle, occhi guardatela per l'ultima volta, braccia prendete il vostro ultimo abbraccio, e voi labbra che siete la porta del respiro, suggellate con un leale bacio, un contratto con la morte che tutto rapisce”.
Boooooooooooooom!
Un dolore atroce.
Il buio.
Un altro corpo inerme.
Il mio fallito suicidio.